E’ la Dogana a dover fornire la prova della reale origine dei prodotti importati, quando ritiene errato un certificato di origine presentato dall’importatore. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 29 aprile, numero 8337, ha stabilito un precedente per molti casi analoghi, ricordando che i verbali delle indagini promosse a livello europeo non possono considerarsi una prova privilegiata, dovendo la Dogana assolvere, in base ai principi generali, l’onere di dimostrare il fondamento della propria pretesa.
Bisogna tenere conto che, nel contrasto all’evasione dei diritti doganali, un ruolo fondamentale è svolto dall’Ufficio europeo per la lotta Antifrode (Olaf), un organismo di alta specializzazione, cui è affidato il compito di indagare sui casi di frode ai danni del bilancio europeo. I dazi doganali rappresentano significative voci attive per l’Unione e l’Olaf ha il potere di svolgere indagini, anche all’estero e con i poteri propri di un organismo inquirente, al fine di verificare se i diritti versati all’atto dell’importazione sono stati correttamente liquidati.
Poiché l’origine doganale di un prodotto, ossia il Paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione sostanziale, è in grado di condizionare significativamente l’entità del dazio dovuto, nel caso esaminato dalla Suprema Corte, l’Olaf aveva svolto un’ampia missione investigativa all’estero, al fine di appurare se una serie di stabilimenti avessero realmente eseguito la produzione idonea a conferire l’origine. Alla base dell’investigazione vi era il dubbio che i prodotti importati (elementi di fissaggio) non fossero originari dell’Indonesia, bensì della Cina, con una differenza di dazio dell’85%, dovuta all’applicazione di una misura antidumping, prevista per i soli prodotti di origine cinese.
La Corte ha ricordato che l’indagine svolta dall’Olaf, se si limita a riportare una descrizione generale della situazione esaminata, non può essere ritenuta sufficiente per smentire un certificato di origine rilasciato dal Paese dell’esportatore. Viene inoltre chiarito che, in questi casi, spetta alle autorità doganali dello Stato di importazione fornire un’adeguata prova, mediante elementi di informazione oggettivi, che il certificato di origine del prodotto, fornito dall’esportatore, era errato e che tale inesattezza è imputabile a un’erronea presentazione dei fatti da parte dell’esportatore. Si richiama, al riguardo, la sentenza della Corte di giustizia 16 marzo 2017, causa C-47/16, che ha sottolineato la necessità di una verifica, caso per caso, dei dati oggettivi a cui l’indagine è approdata.
Nella situazione esaminata, riguardante diversi fornitori indonesiani, l’esportatore era stato sottoposto solo marginalmente a una rapida verifica e la relazione Olaf non riportava, ad avviso della Suprema Corte, elementi di riscontro riferibili al caso concreto, come la tracciabilità dei container utilizzati nei trasporti internazionali, che dessero certezza della provenienza delle merci dalla Cina.